Il rapporto Sabatini-Spalletti, le nuove parole di Spalletti alla prima conferenza, le paure dell’allenatore
Walter Sabatini è un uomo che conosce molto bene Luciano Spalletti. I due si vogliono bene, se lo sono voluti col tempo, hanno imparato a conoscersi ai tempi della Roma, è evidente, così come non si può insabbiare che i due si sono pure scontrati nel tempo e nel corso dello scorso inverno nero e blu. Le stoccate partirono da una parte e dall’altra.
Leggi le bordate tra Spalletti e Sabatini
Oggi Walter, che fuma più sigarette di Clint Eastwood e non ci stupiremmo di vederlo a bordo di una Gran Torino*, ha lasciato l’Inter, anzi Suning, per un moto d’orgoglio dimissionario, perchè credeva di dover essere a capo di un network internazionale di squadre che avrebbero dovuto andare oltre l’Inter e lo Jangsu, ma comprendere anche club di nazioni emergenti e fucine di talenti come Belgio e Portogallo, oltre ad essersi visto “cassare” operazioni come quella di Pastore a gennaio, è invece ora il dirigente massimo della Sampdoria, ma, come sappiamo, l’Inter è difficile da dimenticare e lui ne parla spesso. Lo fa senza il dente avvelenato, però, di molti ex che abbiamo visto in questi anni, da Gasperini a Vieri, ma sicuramente con l’amarezza, pur senza il rancore, di chi sognava in grande e ha dovuto riporre i sogni nel cassetto.
Intervistato dal Corriere dello sport, Walter ha sintetizzato con poche luccicanti parole quella che può essere la personalità di Luciano Spalletti. “Generoso che ti offre il pranzo, cosa rara per gli allenatori”, ha detto Walter, di rimando Luciano ha ricordato certe cene finite alle tre del mattino in una nube di fumo, ma… “I suoi comportamenti sono spesso deviati da paure preventive e complessi che lo fanno vivere male”. Ha ricordato Walter.
“Paure preventive e complessi che lo fanno vivere male”..
Cosa siano queste paure preventive e complessi lo abbiamo visto bene raccontandovi tutte le sue conferenza stampa nel corso della scorsa stagione. Spalletti attacca preventivamente la stampa, nonostante questa sia schierata al 99% dalla sua parte e lo aduli costantemente, sia la stampa tradizionale che i nuovi media, sia gli opinionisti classici, sia gli opinionisti-tifosi dei bar sport delle tv locali, tutti uniti in una curiosa convergenza. Lo fa forse per emulare un po’ Mourinho e la logica del bunker, che però abbiamo visto non dare frutti duraturi, ma forse anche o soprattutto perchè teme fortemente le critiche che potrebbero venire prima o poi e soffre tremendamente le pressioni.
Questa paura e questi complessi che lo immortalano spesso col volto pensieroso e corrucciato, con la fronte solcata dalle rughe, che gli fanno vedere fantasmi e nemici dove non ci sono, a cui oppone un sorriso sarcastico e ostentato in sala stampa, Spalletti li soffre non solo verso i giornalisti, ma verso la piazza, l’ambiente in cui allena. Lo abbiamo visto a Roma, dove ha finito con lo scontrarsi pesantemente con i tifosi, ma l’altro lato della medaglia lo si è visto a Milano, dove l’ex tecnico giallorosso, forse memore della sua precedente esperienza, ha iniziato a lisciare il pelo alla tifoserìa fin dal primo giorno e ha continuato per tutta la stagione con esagerate dichiarazioni d’amore verso il popolo nerazzurro, pur confidandosi poi con alcuni suoi ex tifosi romanisti di ritenere l’ambiente nerazzurro un ambiente di pazzi. E dei “pazzi” si ha paura.
Lo Spalletti visto invece venerdì alla prima conferenza stagionale è apparso diverso e ha sorpreso tutti dichiarando ai giornalisti presenti al Suning media centre: ““Vi saluto volentieri perchè con molti di voi ho lavorato in maniera corretta l’anno scorso e mi ha fatto piacere che molta gente mi ha conosciuto grazie alle vostre descrizioni corrette”.
Un riconoscimento sorprendente considerato quello sentito la stagione scorsa da parte dell’allenatore nei confronti dei reporter e dei cronisti, forse frutto di una ritrovata serenità, anche se poi il mister nerazzurro ha tradito un certo complesso d’inferiorità nei confronti della Juventus affermando con spacconerìa e dopo aver detto due minuti prima che la Juve è più forte, “nessuno può farci sentire inferiori senza il nostro consenso”.
D’altra parte il bisogno istrionico di sentirsi più grande dell’Inter per nascondere il proprio complesso d’inferiorità è di nuovo emerso nel corso della stessa conferenza, quando il tecnico toscano si è vantato di aver ridato appeal all’Inter, dove a suo dire fino ad un anno fa nessun giocatore voleva più venire, mentre ora, grazie a Lui, c’è la fila.
Vedremo quindi se riassisteremo allo Spalletti istrionico e accentratore dell’anno scorso o ad uno Spalletti più sereno, per il momento non ci resta che aspettare.
*Gran Torino è un film di Clint Eastwood del 2008, interpretato dallo stesso regista americano, nella parte di un operaio metalmeccanico in pensione e vedovo, gran fumatore, veterano della guerra di Corea, che vive in un quartiere abitato ormai solo da immigrati asiatici e custodisce gelosamente in garage un’automobile Ford Gran Torino costruita negli anni ’70 dalla fabbrica in cui lavorava e quindi da lui stesso. Dopo un’iniziale diffidenza, intraprende un rapporto di amicizia con i vicini, una numerosa famiglia Hmong, una minoranza perseguitata dal governo comunista del Vietnam fuggita negli Usa. Il film, un po’ superficialmente descritto dalla critica come la storia di un razzista bianco che si redime, è sicuramente un film contro il razzismo, ma è ricco di sfaccettature e complessità ed è lontano dai luoghi comuni e dalle banalità politically correct. Se infatti Clint si trova a dire ad un certo punto del film, “ho più cose in comune con questi asiatici che con la mia famiglia”, riferendosi al cattivo rapporto con i figli che viaggiano su Suv di fabbricazione giapponese e lo riempono di finte attenzioni ipocrite nel tentativo di convincerlo ad andare a vivere in un ospizio, la stessa famiglia Hmong a sua volta deve vedersela con un loro cugino a capo di una gang di immigrati che li perseguita, ma il film è ricco di altri episodi dove emerge come esista anche un razzismo dei neri verso i bianchi, oppure lo stesso Clint deve rivedere i suoi pregiudizi ideologici quando scopre che i Hmong stavano dalla parte degli americani durante la guerra del Vietnam e non sono “rossi”. Il personaggio è ulteriormente arricchito dal fatto di essere di origine polacca, ma a differenza della maggioranza dei suoi ex connazionali detesta i cattolici e i preti, al contrario invece della amata, defunta e cattolicissima moglie, che in punto di morte lo ha affidato al suo giovane parrocco irlandese che lo cinge d’assedio con le sue amorevoli premure, inizialmente respinte burberamente. Come sempre Clint Eastwood ha prodotto un film profondamente americano, dove quello che conta è la personalità e l’individualità dei personaggi e non l’etnìa, la religione o l’ideologia, rifiutando gli stereotipi da dovunque provengano e non in maniera unilaterale.