Cari amici, non ci eravamo dimenticati della nostra indagine sull’interismo. L’abbiamo infatti iniziata prima dell’estate, ma poi interrotta dall’invadenza dell’attualità sul calciomercato. Riprendiamo così con la terza puntata. Abbiamo già fatto una piccola rassegna delle origini sociali e ambientali dell’Inter e quindi dell’interismo. La realtà pionieristica, spesso litigiosa e visionaria, del calcio dei primi del secolo novecento, si assorbe nelle vicende di questo nuovo sodalizio, l’Internazionale Milano, espressione del ceto medio in tutte le sue variegate forme, compreso quelle artistiche, che si definisce Fratelli del Mondo.
Ma non vogliamo fare una storia cronologica, perciò ci gettiamo negli anni ’90, verso la fine del secolo. Siamo sempre a Milano e tutto cambia per rimettere le cose nel suo ordine. C’è un Massimo Moratti alla guida dell’Inter, di nuovo un Moratti, dopo il padre Angelo, divenuto tifosissimo negli anni ’30 grazie alla moglie, tanto da togliere la parola a Meazza quando passò al Milan, e poi patron dell’Inter sul tetto del mondo negli anni ’60. Che c’entra questo con i fratelli del mondo? Beh, diciamo che questa espressione si era un po’ persa nel tempo ed è sotto la proprietà di Moratti che si ridisegna come centrale. Il Massimo fa subito una cosa, appena arrivato, decide che il suo primo acquisto sarà Paul Ince, un giocatore nero proveniente dall’Inghilterra, andando contro i dirigenti che lo sconsigliavano, perchè dicevano, la curva non avrebbe apprezzato. In realtà tutto si risolse per il meglio, Ince divenne l’idolo incontrastato della curva, che gli dedicò uno striscione per implorarlo di rimanere all’Inter, quando già si faceva strada la voce che la moglie lo voleva riportare nel Regno Unito, come in effetti accadde. Ad ogni modo, il concetto di fratelli del mondo viene riattualizzato in un’ottica antirazzista di tipo postmoderno, andando probabilmente anche oltre le intenzioni dei fondatori: difficile, infatti, pensare che nel 1908 questa idea avesse una tale impronta così fortemente connotata, in un’epoca dove non esisteva una spiccata sensibilità antirazzista, e non fosse invece sinonimo di una volontà di difendere la componente svizzera e britannica del calcio milanese in un contesto prettamente europeo, così messa in discussione dalle nuove norme della federazione calcistica. Già, perchè a differenza di quanto si crede, non fu il Milan a decidere di schierare solo italiani, determinando la scissione che darà vita alla beneamata, ma fu una scelta del governo centrale del calcio, che volle istituire un campionato per soli italiani e un altro, a parte, misto stranieri e italiani. Non sappiamo le motivazioni di una tale scelta, ma molte squadre si opposero, essendo la componente straniera nel calcio evidentemente molto presente, trattandosi questo all’epoca di uno sport “esotico” importato dall’Inghilterra pochi anni prima. Il Milan, invece, alla fine, nelle vesti del suo presidente Camperio, decise di cedere, suscitando l’aspra reazione della sua parte italo-svizzera-britannica, tra cui il pittore Muggiani.
Ma torniamo agli anni ’90, la scelta di Moratti di ridare un respiro internazionale si rifà anche in una delle sue prime campagne abbonamenti, che riprendono il motto del leader e profeta afroamericano Martin Luther King, “I have a dream”, il sogno della fine delle tensioni razziali in America condotto attraverso i metodi non-violenti di questo pastore protestante. C’è da dire che tutto ciò ha un effetto positivo, “ripulendo” l’immagine della società nerazzurra, che nel corso degli anni ’80, per via delle intemperanze di alcuni suoi tifosi, aveva assunto una nomea “nera” dal punto di vista ideologico. Il rischio, col tempo, è però di passare da un estremo all’altro, di fare dell’Internazionale una bandiera di un certo universalismo astratto e di un multiculturalismo a senso unico. Se ne vedono i segni quando, dal momento in cui Moratti viene estromesso dal mercato italiano dominato dalla Juventus e dalla gea di Moggi, è costretto a rivolgersi quasi esclusivamente a calciatori stranieri. Una scelta delimitata e obbligata, come lui stesso dirà in diverse circostanze, che tra l’altro porta a grandi successi sportivi, ma che per alcuni diventa una scelta ideologica, estremizzando e strumentalizzando il concetto di fratelli del mondo, che si tramuta in “esterofilia”. Oggi, invece, sicuramente fratelli del mondo deve voler dire società aperta, ma, come diceva il filosofo liberale Popper, la società aperta non deve essere sinonimo di una idea molle e unilaterale di tolleranza, ma ha la sua identità, la sua verità, le sue radici e il suo senso di appartenenza. (Continua)