“Il sentimento deve essere dei tifosi, chi decide deve usare il cervello.” Ho letto questa frase tra i commenti dei tifosi sui social network riguardo l’intervista della Gazzetta all’ex presidente dell’Inter Pellegrini, sceso in campo all’ultimo minuto contro Thohir, in nome dell’italianità della squadra che tuttavia si chiama, non per caso, Internazionale. Una frase che rispecchia bene il pragmatismo del tifoso interista e che fa piazza pulita di tutte le romanticherie melense e i sentimentalismi appiccicosi messi in campo dai media italiani e ora anche da Pellegrini, cacciato a furor di popolo nel 1995, per sbarrare la strada al magnate indonesiano, definito di volta in volta un affarista senza cuore, un avventuriero, uno che si stuferà presto del giocattolo, in un crescendo di cultura del sospetto, provincialismo gretto e autarchico. Ma di cosa hanno veramente paura? E’ evidente a chiunque non sia tremendamente ingenuo che il bene dell’Inter e il destino di Moratti qui c’entra poco. La paura è che Thohir faccia da apripista e che un domani gli Agnelli, i Berlusconi e i De Laurentis vendano le loro società a investitori stranieri, cambiando lo scenario del calcio italiano, il quale se dovesse divenire un prodotto globale, dovrebbe riformarsi superando la sua struttura omertosa, provinciale, familistica. E allora sotto con la retorica di cartapesta sui nostri imprenditori che entrano nel calcio non per business, ma per il cuore e l’amore, vai con le prediche medievali degli Sconcerti, che s’interroga angosciato su cosa faranno i tifosi-fedeli orfani degli Agnelli, dei Berlusconi, dei Moratti. Nostalgismi fuori dal tempo come se piovesse, ma non tirate in ballo a sproposito il bene dell’Inter e l’essenza di una squadra che fu fondata proprio per combattere le chiusure autarchiche e provinciali del calcio italiano.