Internazionale Milano contro il razzismo
L’Inter lancia la campagna BUU, Brothers Universally United, con un video che vede protagonisti il presidente Steven, Javier Zanetti, Icardi, Luis Figo ed Eto’o. Un modo di trasformare un verso razzista in un grande slogan di fratellanza
L’Internazionale Milano si conferma in prima fila nella lotta contro il razzismo, anzi di fatto l’unico club italiano a metterci la faccia ed a fare qualcosa contro i cori razzisti dei propri tifosi (già ragazzi, perchè onestà intellettuale e maturità vuole che prima di tutto si condanni ciò che avviene in casa propria e non puntare preventivamente l’indice sugli altri).
Siamo un paese molto fantasioso e di fronte a queste manifestazioni il repertorio è dei più variegati, da chi nega proprio l’esistenza del razzismo, “perchè i buu li fanno a tutti i giocatori”, si dice, peccato che a Koulibaly e altri giocatori neri non si tratti propriamente di un buu, ma di un ululato che fa il verso della scimmia, il cui significato è evidente a chiunque sia in grado di intendere e di volere, almeno si spera. Ancora più fantasiosa poi la retorica dei padri italiani che avevano già regalato ai figli il biglietto per Inter-Benevento o Sassuolo e che scrivono lettere strappalacrime ai giornali, facendosi scudo dei propri bambini privati di una giornata da tempo sognata e delle loro lacrime per attaccare le istituzioni e i “burocrati senza cuore” che hanno squalificato lo stadio o persino l’Inter stessa rea di rispettare una sentenza e non fare ricorso, senza dire una parola sui delinquenti con le asce e su chi è realmente responsabile della squalifica dello stadio. Una sentenza probabilmente sproporzionata, ma determinata dal comportamento dei neonazisti delle curve verso i quali certi genitori dovrebbero dirottare la rabbia dei propri figli che non potranno assistere alla partita, invece di diseducarli al solito vittimismo antiistituzionale e al piagnisteo italico. Viceversa la lettera di un padre scozzese di un bimbo interista è sembrata priva del tono polemico di altre, ma anche qui non è chiaro cosa abbia spiegato al figlio. D’altra parte se è vero che una sentenza del genere sa di pena collettiva totalitaria e ottiene l’effetto controproducente di creare una oggettiva e involontaria comunanza tra razzisti e interisti veri, è vero anche che allo stadio e sugli ormai onnipotenti social ci si aspettava una dissociazione più netta da parte di molti tifosi nerazzurri, che non c’è stata.
Ma torniamo alla nostra Inter, perchè in tutto questo appare veramente quella che ne esce meglio, l’Inter come club, non gli pseudotifosi che non conoscono nemmeno la sua storia e la sua tradizione. Perchè di storia e identità si tratta, di appartenenza ad un club aperto al mondo e agli stranieri per vocazione fondativa e che quindi non può accettare che la normale competizione e rivalità sportiva venga strumentalizzata con cori che anche se non fossero razzisti sono comunque xenofobi e beceri e tanto basta per espellerli dalla nostra comunità. E’ invece triste leggere sui social gli insulti da parte di certi finti interisti nei confronti della dirigenza (chissà perchè un certo modo di pensare si accompagna sempre al turpiloquio e alla violenza verbale), gonfi d’odio e di livore per quella che è una iniziativa normale e quasi ovvia per una squadra come l’Inter.
Essere interisti vuol dire essere contro la prostituzione intellettuale e a favore dell’onestà intellettuale. Se siamo i fratelli del mondo e ci chiamiamo Internazionale come possiamo accettare la xenofobìa? Se giustamente intimiamo alla Juve di rispettare le sentenze, perchè sarebbe uno scandalo se la nostra società rispetta una sentenza non facendo ricorso contro, pur ritenendola incongrua? L’onestà intellettuale è strettamente correlata con il fatto di essere una squadra particolare, una comunità aperta e non chiusa, quindi non un clan di uguali e omologati sempre sulla difensiva e sempre pronti a coprirsi tra affiliati, ma una unione di diversi e pazzi che navigano nel mondo in mare aperto e uniti da un’ideale sportivo. Amala.
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