Ancora lacrime per Julio Cesar. Come la sera del 29 agosto 2012, quando salutò San Siro dopo 300 presenze in nerazzurro, 10 rigori parati (su 26 subìti) e quattordici trofei in bacheca. Considerato frettolosamente un portiere finito all’età di 33 anni, si è allungato la carriera di cinque anni, annunciando l’addio l’altra sera davanti ai suoi compagni del Benfica, vivendo il dramma di molti calciatori della sua generazione, capaci di giocare fino ai 40 anni e desiderosi ancora di continuare. Dopo un mondiale da protagonista con il Brasile nel 2014, al Benfica ha vinto due scudetti da titolare, ma da un anno e mezzo era finito ai margini, rivivendo forse certe situazioni vissute all’Inter, quando gli fu preferito Handanovic. D’altronde il calcio è crudele, era stato lui stesso a togliere il posto a Toldo all’Inter, ovviamente per meriti suoi. Scovato da Roberto Mancini in Brasile, arriva in Italia da sconosciuto nel 2005 e viene girato in prestito per sei mesi al Chievo, dove non gioca nemmeno una partita. E’ quindi totalmente un oggetto misterioso quando arriva ad Appiano e molti storcono il naso quando il tecnico lo preferisce ad un monumento come Toldo, ma si devono ricredere. Agile, felino, reattivo, ma anche essenziale, asciutto, ha dalla sua rispetto ad un portiere vecchio stampo come Toldone una eccellente capacità a gestire la palla coi piedi e un rinvio capace di arrivare a ridosso dell’area avversaria. E sarà proprio lui a lanciare l’azione di uno dei due gol al Bayern Monaco nella finale di Madrid. Persona solare, disponibile, sorridente, ma anche bisognosa di sentire la fiducia dell’ambiente è lui il portiere della Grande Inter degli anni duemila.